di Enzo Ganci
Al telefono l’ordine arrivò perentorio: “Bartali, deve vincere!”.
Lui cacciò un respiro profondo, deglutì un boccone di saliva, poi rispose timidamente: “Ci provo, Presidente, ma non sarà facile…”. “L’Italia ha bisogno di lei!” controbatté l’interlocutore. “Farò il possibile….”, si congedò il campione.
All’altro capo del filo c’era nientemeno che Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio per quella che – magari con i modi bruschi di un uomo dalla scorza dura – era una chiara esortazione, forse addirittura un’implorazione.
Bartali, da Ponte a Ema, Firenze, che tutti chiamavano “Ginettaccio” per il suo carattere burbero e battagliero, capì subito di essere stato catapultato, suo malgrado, in una pagina di storia del nostro Paese. Una delle più celebri del primo dopoguerra.
L’Italia viveva momenti drammatici. Era il 14 luglio 1948, e Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista, aveva subìto un attentato a Roma per mano dell’anarchico siciliano Antonio Pallante, figlio di un operaio forestale di Randazzo, attentato che era fallito per pochissimo. Torino, Milano, Genova, città tradizionalmente operaie, vissero ore drammatiche, imitate subito da numerosi altri centri del nostro Paese. I tumulti colorarono col sangue le strade del Nord Italia. Sembrava che la situazione dovesse degenerare ulteriormente. Per farla breve: sembrava che una cruenta guerra civile potesse scoppiare da un momento all’altro.
Ci voleva qualcosa che sviasse, qualcosa che distogliesse l’opinione pubblica da quella gravissima situazione.
In questi casi, la storia ce lo ha dimostrato spesso, pochi argomenti sono più convincenti dello sport. Di certo c’è che nel pomeriggio del 15 luglio, l’indomani dell’attentato, rimbalzò da Oltralpe la notizia che voleva Gino Bartali vincitore della Cannes-Briançon, la più infernale delle tappe alpine del Tour de France.
Sarà una leggenda, invece, sarà che i giornali del tempo raccontarono la vicenda con l’enfasi che si usava allora, fatto sta, però, che immediatamente, come per incanto, come forse nemmeno lo stesso De Gasperi poteva sperare, arrivò una brusca e positiva sterzata al panorama sociale di allora. Il clima surriscaldato si attenuò, gli scontri sociali si placarono. Gli italiani, piuttosto che scendere in piazza per manifestare, preferirono stare con l’orecchio incollato alla radio. Lo stesso Togliatti, non appena si riprese, non esitò a chiedere: “Che ha fatto Bartali?” “Ha vinto, Palmiro” gli fece sapere la dirigenza del PCI. E – dicono le cronache – la notizia del successo del campione della “Legnano” lo confortò enormemente.
Fu una tappa d’altri tempi. Una di quelle che contribuirono a rendere grande l’epopea del nostro ciclismo di allora. “Ginettaccio”, trentaquattrenne, unico rappresentante italiano competitivo alla “Grande Boucle” (Coppi aveva preferito rinunciare), pagava un ritardo in classifica di oltre 21 minuti dal francese Louison Bobet, l’idolo di casa, che si era difeso molto bene sui Pirenei. Ma all’appuntamento alpino la musica fu ben altra. Sui primi due colli, l’Allos ed il Vars, gli attacchi di Lazarides, Impanis e Robic infiammarono presto la corsa. Bartali controllava a distanza. Il capolavoro del toscano poi si consumò sull’Izoard. Tra il fango, il freddo gelido, la polvere delle strade sterrate, le cosiddette “strade bianche” che diventavano nuvole al passaggio dei ciclisti, il corridore italiano sferrò il suo attacco alla maglia gialla. Per tutti ci fu ben poco da fare. Robic fu l’ultimo a cedere alle pedalate del toscano. Bobet, invece, prese una “cotta” storica, perdendo minuti su minuti. I distacchi furono abissali. La maglia gialla, simbolo del primato in classifica, restò però sulle spalle del francese.
Ma Bartali non si fece sfuggire l’occasione offertagli dalla tappa successiva, la Briançon-Aix Les Bains che presentava, scusate se è poco, le scalate al Galibier, Croix de Fer, Portet, Coucheron e Granier, vale a dire le cime storiche del Tour.
Fu un crescendo entusiasmante. La resistenza degli avversari si sgretolò presto, come sabbia al vento. Altre due tappe furono appannaggio dell’italiano (furono 7 in tutto) ed a Parigi, alla fine della corsa, il suo vantaggio era di oltre 20 minuti sul secondo, il belga Schotte.
Fu un successo epico, che forse, ancora oggi, viene ricordato come quello più entusiasmante e più famoso della storia ultracentenaria della corsa a tappe d’Oltralpe.
Per Bartali fu la seconda affermazione al Tour de France, esattamente dieci anni dopo la prima, avvenuta nel 1938. In mezzo, purtroppo per lui, ci fu la guerra, che si portò via gli anni migliori della sua carriera.
Per i giornalisti Bartali era “Gino il pio”, perché era stato fotografato mentre prendeva la comunione, ma soprattutto perché il suo più grande tifoso sembra fosse Papa Pacelli, Pio XII.
A differenza di quell’anticlericale di Fausto Coppi, tanto irriguardoso della morale pubblica del tempo da abbandonare la moglie Bruna per Giulia Occhini, passata alla storia come la “Dama Bianca”, in un rapporto che per i tempi era scandalo.
Coppi e Bartali erano grandissimi, ma diversi in tutto, e la loro rivalità divideva l’Italia, quanto o forse più di Guelfi e Ghibellini o di Montecchi e Capuleti.
Ricordo ancora, da ragazzino, le lunghe discussioni fra mio padre e mio nonno: bartaliano il primo, coppiano il secondo. Non ne venivamo mai a capo ed alla fine ognuno, fatti salvi i meriti dell’altro, restava fermo sui valori del proprio beniamino.
Coppi e Bartali riuscì a metterli d’accordo solo Mario Riva, conduttore televisivo, facendoli duettare in una famosa puntata de “Il Musichiere” del 1959, con una celebre parodia di “Come pioveva”, che fa parte a buon diritto della storia della televisione italiana.
Ho avuto la fortuna ed il privilegio, di incontrare Gino Bartali e di scambiare con lui pure qualche parola. Era il 1994, quando ad Agrigento si disputava la prova in linea del campionato del mondo di ciclismo. Lui, ottantenne, che ormai veniva portato in giro come una specie di Totem, era, diciamo… contrariato, anzi, diciamo le cose come stanno, era proprio incazzato nero per la sconfitta ingenua di Claudio Chiappucci, eterno secondo anche al mondiale, battuto per un soffio dal francese Luc Leblanc.
Io invece, giovane ed entusiasta cronista sportivo, cresciuto a pane e calcio o in alternativa a pane e ciclismo, non stavo nella pelle per quella che consideravo già la più prestigiosa intervista della mia, allora, breve carriera giornalistica. Gli rivolsi la domanda, ma ovviamente, gliela avranno posta migliaia di volte, usando le sue celebri parole: “Bartali, l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare?” Mi diede un buffetto e mi disse di no: “L’è’ stato m’bel mondiale – borbottò con la sua inflessione toscana e soprattutto con la sua inconfondibile voce roca – Mannaggia a quel bischero di Chiappucci, l’ha fatto vincere l’francese. Ai tempi miei quello lì unn’avrebbe vinto mica, ai tempi miei i francesi ci rispettavano e le beccavano…”.
Se ne andò a quasi 86 anni nel primo pomeriggio del 5 maggio del 2000, usando pure, ovviamente senza volerlo … rispetto per noi giornalisti, che alle 4 del pomeriggio abbiamo avuto tutto il tempo per scrivere comodamente il “coccodrillo” e dedicargli il paginone centrale che si deve ai “grandi”, in questi casi.
Una, chiamiamola, gentilezza che quando correva non aveva avuto. Chissà, forse voleva farsi perdonare tutti i litigi, tutte le polemiche e tutti gli alterchi – ed erano stati tanti – che per anni avevano accompagnato le sue gesta e che avevano contribuito a rendere epica una carriera gloriosa che – dovessero passare altri cento anni – resterà per sempre scolpita nella leggenda.
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