di Enzo Ganci
Ero un giovane studente della 1ª B del liceo classico di Monreale. Quel giorno, era un giorno di marzo del 1983, la nostra scuola veniva intitolata ufficialmente al capitano dei carabinieri “Emanuele Basile“, ucciso dalla mafia il 4 maggio di tre anni prima.
Quel giorno, dunque, il liceo classico di Monreale, che fino ad allora era stato una sezione staccata del “Vittorio Emanuele” di Palermo, diventava un istituto autonomo, portando il nome di uno dei martiri della lotta alla mafia.
Quel giorno a stringere la mano al nostro preside, il compianto professore Fedele Cannici ed al sindaco di allora, il professore Pino Giacopelli, scomparso tra anni fa, vennero tante personalità. La benedizione toccò all’arcivescovo “pro tempore”, Salvatore Cassisa, ma tutti gli occhi erano puntati sul magistrato Rocco Chinnici e sul capitano dei carabinieri, comandante della Compagnia di Monreale, Mario D’Aleo, successore di Basile.
In qualità di rappresentante degli studenti, ebbi il compito di contribuire a fare gli onori di casa ed andai a salutare personalmente, per farlo accomodare, l’ufficiale dell’Arma, con il quale ci eravamo conosciuti in occasione delle nostre proteste studentesche. Il capitano D’Aleo, che era già venuto al liceo nei giorni precedenti per concordare le modalità della cerimonia e per effettuare il necessario lavoro di “bonifica”, quella mattina strinse la mano a tutti, con quel sorriso di persona gioviale quale era ed al tempo stesso con quella fermezza e quel distacco che il suo ruolo gli imponevano.
Fu una cerimonia sobria e partecipata al tempo stesso, in perfetto stile dell’Arma. A nome degli studenti il messaggio di benvenuto alle autorità e di ricordo del capitano Basile fu letto da Rosellina Sirchia, studentessa della 2ª A, che si concluse con un fragoroso applauso. Cominciò quel giorno, pertanto, il rapporto del liceo di Monreale con l’Arma dei carabinieri.
Quello con il capitano D’Aleo, invece, si concluse di lì a breve. Poco meno di tre mesi dopo, infatti, l’ufficiale fu freddato da diversi colpi d’arma da fuoco, assieme all’appuntato Giuseppe Bommarito ed al carabiniere Pietro Morici, la sera del 13 giugno 1983, in via Scobar a Palermo.
Quella sera noi ragazzi dell’epoca eravamo impegnati a guardare un programma rievocativo della vittoria dell’Italia ai campionati del mondo di Spagna, avvenuta un anno prima. Dall’euforia per i gol di Paolo Rossi al Brasile, alla Polonia ed alla Germania passammo alla tristezza più grande, pensando che quell’uomo al quale qualche tempo prima avevamo stretto la mano era stato ucciso in maniera così brutale assieme a due compagni di lavoro, a due padri di famiglia.
Monreale fu profondamente scossa da quell’ennesimo fatto di sangue. La camera ardente dei militari fu allestita in aula consiliare. A rendere omaggio ai carabinieri assassinati arrivò pure il presidente della Repubblica Sandro Pertini, così come il segretario nazionale della Democrazia Cristiana, Ciriaco De Mita. I funerali in forma solenne vennero celebrati in cattedrale, officiati da monsignor Cassisa. Piangevamo in tanti. Non soltanto noi ragazzini, ma anche e soprattutto i suoi colleghi di lavoro: dagli alti ufficiali ai carabinieri semplici. Il capitano D’Aleo era un uomo allegro e benvoluto.
Come una volta mi spiegò Attilio Bolzoni, giornalista di punta de “La Repubblica” per i fatti di mafia, a differenza del capitano Basile, che inizialmente brancolava nel buio nel compiere le sue indagini, Mario D’Aleo sapeva benissimo in quale ambito si muoveva e forse fu ucciso per questo.
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