di Antonella De Francesco
Non ha ricevuto i successi di critica che sperava, l’ultimo film di Nanni Moretti tratto dal romanzo di Eshkol Nevo dal titolo Tre piani, recentemente pure presentato al Festival di Venezia .
Non ho letto il libro, che pure mi fu caldamente consigliato e quindi non posso valutare quanto libero sia stato l’adattamento del regista. Certo da Tel Aviv al quartiere Prati di Roma è un bel salto, ma se è vero che “ogni mondo è paese” non dovrebbe essere questo il problema. Al di là dell’ambientazione, infatti, è l’animo umano sotto osservazione e quale miglior microcosmo se non un edificio in cui vivono famiglie diverse?
Ho sempre guardato agli edifici come scrigni preziosi per la vita che vi si svolge all’interno: dietro ogni porta una famiglia, dietro ogni cognome una storia, quasi sempre sconosciuta agli altri. Ci si incontra, ci si saluta, ci si aiuta oppure no, dipende solo da noi. Fidarsi ? Aprirsi ? O piuttosto affrontare problemi e sconfiggere demoni in totale solitudine, mentre basterebbe forse una chiacchierata col dirimpettaio per salvare una giornata no.
Nel film di Moretti i temi sono tanti e complessi: rapporto figli-genitori, rapporto tra coniugi, insicurezze maschili e femminili, incapacità di andare oltre noi stessi e di guardare a ciò che ci circonda, presi come siamo dalle nostre ansie. Le donne, anche quelle succubi, dimostrano ancora una volta capacità che gli uomini non riescono a manifestare e che li relegano a rapporti poco chiari con i figli a qualunque età. Paralizzati dalle loro rigidità, disegnano confini dove le donne immaginano orizzonti, impongono regole inapplicabili, basate sull’out-out del bianco o nero che non possono più essere accettate. A tutti i piani manca il dialogo vero, quello che li potrebbe salvare tutti, e quando il gioco si fa duro manca la solidarietà, manca la verità. I microcosmi restano isolati ciascuno al suo piano e dentro ogni famiglia ognuno è infelice a suo modo, per dirla con Lev Tolstoj.
Un cenno va fatto alle madri ritratte nel film, tutte tormentate dall’ansia di non essere all’altezza, con un amore nel cuore che non ammette deroghe , che non può essere svilito dai compromessi che pure si rendono necessari per salvare tutto. In primo piano questa così difficile dualità del dover essere donna e madre che le pone continuamente in una condizione di instabilità, dovendo aggiustare il tiro per restare entrambe le cose, il più delle volte sacrificando loro stesse.
Ma c’è nel film una speranza e qui c’è una lacuna a mio parere: all’improvviso tutto si semplifica solo perché le cose si mettono meglio, il tempo sistema tutto e restituisce a ciascuno quel tanto di serenità che gli farà scorgere e perdonare il vicino e perfino le infinite possibilità che il mondo offre oltre quel portone. Sarà più chiaro nel libro che cosa e quanto sia costato a tutti questo lieto fine che nel film qui sembra descritto in modo troppo semplicistico, specie se si giudica con il metro dei morettiani.
La scena finale è forse la più bella, una scena di Felliniana memoria in cui tutti i protagonisti finalmente si risvegliano dal loro torpore e riscoprono la vita oltre loro stessi. I tre piani sono adesso un unico piano di anime ritrovate e pronte ad una nuova vita fuori dall’edificio nel quale restano comunque custoditi segreti e ricordi di quello che, nel bene e nel male, non tornerà.
Da vedere.
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