di Antonella De Francesco
Non è semplice scrivere di storie misteriose, quelle di cui si sa tutto e niente, di guisa che non sono state mai completamente chiarite. Dipanare una matassa di fili intrecciati e riannodarli per farne il canovaccio di un film e poi ancora di un film nel film: questo è geniale !
Roberto Andò stavolta mette a segno il suo obiettivo nel suo ultimo film Una storia senza nome, in cui fa propria la tesi più acclarata della scomparsa della Natività del Caravaggio nella notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969, ad opera della mafia. Sottratta dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, non si seppe mai che fine avesse fatto, anche se molti pentiti hanno dato la loro versione in proposito.
Il primo tempo del film è un po’ banale e, a mio parere, troppo allungato, anche se necessario, a preparare lo spettatore al seguito. Il film è complessivamente ben girato e fa dell’oscurità caravaggesca il trait d’union tra arte e realtà e tra realtà e finzione cinematografica.
I volti del Caravaggio che, come è noto, erano volti reali scelti tra il popolo, ritrovano le fattezze di altri volti non meno “inquietanti” di malavitosi, uomini d’affari conniventi, politici inetti ma disponibili, ritratti in ambienti volutamente “oscuri”. L’ombra caravaggesca diventa l’ombra in cui si compiono misfatti, si concludono affari, si rendono favori, si pagano errori.
Belle inquadrature di Palermo, che si presta magistralmente ad essere teatro di misteri, con i suoi vicoli e le sue vedute a perdita d’occhio, entrambe perfette per perdersi, confondersi e persino sparire. Palermo è proprio questo: una città dove tutto accade sotto i nostri occhi, ma nessuno vede mai niente. Meravigliosa cecità che ci rende tutti un po’ colpevoli e anche sorpresi, allorquando qualcuno ci forza a dover guardare .
Così, nella realtà, si compie perfettamente il gioco pittorico di Caravaggio, che sapientemente illuminava solo alcuni volti, lasciando tutto il resto nell’ombra.
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