(Salvatore Spago). Del semplice incanto dell’afrore di braccia mobili al sole, di sguardi tagliati da esagerata luce, dentro un’estate che sembra scontata, di questo incanto leggero appoggiato alla penombra di stanze da letto dove l’amore si prova ancora, tra ricordi e ipotesi, io mi scopro maledetto. Come il più rozzo, stupido uomo, imprigionato dall’attesa, bastonato dalle energie di spreco, eroso dal tempo che non torna indietro. Come chiunque.
Dell’incanto assai semplice del gelo stagnato sui fili all’alba, di nuvole enormi come schiaffi sul domani, lividi che non si dissolvono, di questo incanto pesante affondato nella sacca dell’anima sfinita in stanze da letto avariate, dove la puzza della vita rimane a marcire, chiusa per folle tutela – che il freddo non possa seccarla –, io non mi scopro più. Come il più raffinato dei pensatori esistiti, equilibrista del nulla immaginato sulla vita, libero da tutto perché morto in un tempo finalmente fermo. Come me soltanto.
Perché non s’impara il limite? a conoscerlo, toccarlo, averne cura, come fosse lo steccato di confine di proprietà della mente? Si avrebbe la bellezza addosso di aver spinto a mani aperte la passione, che copre tutto, anche i vizi e le dimenticanze.
Perché non s’insegna al centro? Quel punto di mezzo dove niente è chiaro, anche non aver cura del proprio respiro. Perché qui l’insegnamento non ha valore e la voce si perde? Le mani sfiorano piano cose inutili, carezze finte di pensieri deboli quanto il vento, che manco passa.
Di un incanto sbagliato, volevo parlarvi, di qualcosa di storto che c’è dentro, piegato, nascosto, e non abbiamo ancora capito.
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