FONTE: INGVVULCANI
di Micol Todesco
Il 2018 è un anno speciale: sono trascorsi 200 anni esatti dalla prima edizione del romanzo Frankenstein, o il moderno Prometeo, scritto da una giovanissima Mary Shelley, e pubblicato anonimo per limitare lo scandalo. Questo particolare anniversario verrà celebrato in tutto il mondo il 31 ottobre con letture, spettacoli, incontri e proiezioni. La mappa pubblicata dal sito https://frankenreads.org/ segnala alcuni degli eventi organizzati in Italia e nel mondo, e dimostra l’incredibile attenzione riservata al romanzo ancora due secoli dopo la sua prima pubblicazione.
Il romanzo gotico è costruito attorno alla creatura (figura 1), assemblata e resa viva dall’ambizione incosciente di Victor Frankenstein, ma non si limita a narrare la truculenta storia di un mostro. Profondamente radicata nella cultura del suo tempo, la diciannovenne Mary Shelley (figura 2) è capace di cogliere temi destinati a restare attuali fino ai giorni nostri. Il suo testo riflette sui limiti e sulle responsabilità della ricerca scientifica; descrive la paura nei confronti del diverso e le drammatiche conseguenze del rifiuto sociale che ne deriva; racconta anche, e in modo emozionante, la trasformazione che la creatura attraversa nel momento in cui, di nascosto, impara a parlare e a leggere, acquisendo insieme conoscenze e consapevolezza. Si tratta insomma di un romanzo di grandissimo interesse, e non stupisce che in tutto il mondo si moltiplichino le iniziative per riproporlo al grande pubblico.
Ma perché scriverne anche qui, in un blog dedicato ai vulcani?
Per capirlo, bisogna fare un passo indietro, e partire da molto, molto lontano. Alle origini del romanzo c’è un’estate particolare, quella del 1816, che i coniugi Shelley trascorrono a Ginevra ospiti di Lord Byron, a villa Diodati. È un’estate piovosa e fredda che gli amici sono costretti a trascorrere al chiuso, passando il tempo a leggere storie di fantasmi e a discutere della possibilità di infondere nuova vita ad organismi morti, come sembravano suggerire gli esperimenti di Galvani. Da queste suggestioni nasce l’ispirazione per il romanzo, il cui concepimento è stato sicuramente favorito da quelle insolite condizioni meteorologiche. È proprio qui che l’attività vulcanica entra a far parte di questa storia, a partire da una remota isola indonesiana.
L’eruzione del Tambora
L’ Indonesia è un grande arcipelago composto da oltre 17000 isole, con ben 127 vulcani attivi. Ogni anno, circa una decina di questi vulcani entra in eruzione. Nel 1815, il vulcano Tambora, sull’isola di Sumbawa, è tra questi (figura 3). Nel 1815 è un edificio vulcanico poderoso: si stima che superasse i 4000 metri di quota. Dopo un sonno durato molti secoli e circa tre anni di attività minore (con tremore vulcanico, e piccole emissioni di cenere), entra in eruzione la sera del 5 aprile del 1815. La storia della sua eruzione e delle sue incredibili conseguenze è raccolta qui.
Le esplosioni, chiaramente avvertite sulle isole vicine, vengono scambiate per colpi di artiglieria pesante. Si tratta invece del vulcano, che in quelle ore solleva una colonna eruttiva pliniana che raggiunge una quota di 33 chilometri. La mattina dopo, un centimetro di cenere vulcanica ricopre la porzione orientale dell’isola di Giava, a circa 500 chilometri di distanza.
Dopo qualche giorno di quiete interrotta soltanto da sporadiche emissioni di cenere, l’attività esplosiva riprende con rinnovato vigore la sera del 10 aprile, quando la colonna eruttiva supera i 40 chilometri di altezza. La quantità di cenere immessa nell’atmosfera è talmente grande che per due giorni l’isola rimane avvolta nell’oscurità più fitta. Nei villaggi intorno al vulcano i tetti crollano, gravati dall’accumulo di lapilli e ceneri. A questi crolli si aggiunge la devastazione portata dai flussi piroclastici, miscele calde e veloci di gas e ceneri che si abbattono sui fianchi del vulcano, spazzando via interi villaggi. Quando questi flussi raggiungono il mare, sollevano onde di maremoto che raggiungono le coste vicine, fino all’isola di Giava.
La fase parossistica dell’eruzione termina dopo circa 24 ore, la sera dell’11 aprile 1815 e l’attività finalmente si ferma nel maggio dello stesso anno. Si stima che siano stati eruttati circa 40 chilometri cubi di materiale vulcanico.
Nel corso dell’eruzione la cima del vulcano collassa, formando un’ampia caldera, con un diametro di circa 6 chilometri e profonda un chilometro (figura 4). L’edificio vulcanico è decapitato, e oggi raggiunge la quota massima di 2850 metri sul livello del mare.
Gli effetti dell’eruzione
La cenere eruttata nel corso dell’eruzione viene trasportata dai venti verso nord e ricade su una superficie estremamente estesa. Le cronache locali descrivono la presenza di cenere sugli alberi anche in Brunei, a 1500 chilometri di distanza dal vulcano. Lo spessore dei depositi piroclastici è massimo nei pressi del vulcano e diminuisce gradualmente con la distanza. L’area ricoperta da almeno un centimetro di cenere ha un’estensione di 980.000 chilometri quadrati. Quest’area è definita sulle mappe topografiche da curve, dette isopache, disegnate dai vulcanologi unendo i punti dove lo strato di ceneri ha raggiunto lo stesso spessore.
Si stima che almeno 10000 persone sull’isola di Sumbawa siano morte direttamente a causa dell’eruzione, e che almeno altre 50000 siano decedute a causa delle carestie e delle epidemie che seguirono.
L’impatto dell’eruzione non si esaurisce qui. Come succede per le grandi eruzioni in aree tropicali, anche l’esplosione del Tambora ha avuto effetti climatici con ripercussioni a scala globale. Le eruzioni vulcaniche immettono in atmosfera quantità significative di anidride solforosa (SO2), che si trasforma in un aerosol in grado di interagire con la radiazione solare e dunque di modificare la quantità di energia che raggiunge la superficie terrestre. Nella bassa atmosfera l’aerosol viene rimosso dalle piogge in alcune settimane e non produce, quindi, effetti a lungo termine. Se invece la nube eruttiva raggiunge la stratosfera, cioè se supera 15 chilometri di altezza, l’aerosol che si forma può rimanere in sospensione per alcuni anni, riscaldando la stratosfera e raffreddando la superficie terrestre. La circolazione atmosferica ne risulta significativamente alterata a scala globale. Si creano in questo modo le condizioni che, in Europa, trasformano il 1816 nell’ anno senza estate.
Le regioni dell’Europa centrale e occidentale sono severamente colpite: le temperature rigide (figura 5) e le piogge intense danneggiano le coltivazioni che crescono più lentamente ed in molti casi non arrivano a maturazione. Nel giro di un paio d’anni, il costo del grano sulle due sponde dell’Atlantico raddoppia. La crisi si abbatte su un continente già duramente provato dalle guerre napoleoniche e la penuria di cibo che seguì gli scarsi raccolti è stata descritta come la peggiore crisi di sussistenza del mondo occidentale. La carestia rende le persone vulnerabili, preparando il terreno a epidemie diffuse. Il tifo colpisce 800.000 persone solo in Irlanda, uccidendone almeno 40.000.
Nella Svizzera che ospita i coniugi Shelley, il tasso di mortalità cresce del 20% fra il 1816 e il 1817. In tutta Europa molti muoiono di fame, mentre cresce la tensione politica e sociale, che spesso sfocia in disordini e sommosse. È in questo clima, non solo meteorologico, che la storia di Frankenstein è stata concepita.
In condizioni tanto drammatiche, chi può sceglie di emigrare, ma sono in pochi; quelli che possono permetterselo, si calcola che siano meno di 60.000. La maggior parte di loro ha la fortuna di abitare lungo le coste da cui partono i vascelli diretti oltre Atlantico. Chi risiedeva in Svizzera o in Germania doveva avere le risorse economiche necessarie a garantirsi il passaggio sui barconi che navigavano lungo il Reno fino alle grandi città portuali, da cui partire finalmente per le Americhe.
Il vulcano esploso in una remota parte del mondo ha influito sulla vita di tantissimi, raggiungendo anche un’Europa lontana e inconsapevole. Mentre rileggiamo Frankenstein, mascherati per Halloween, pensiamoci: abitiamo un piccolo pianeta. Siamo tutti parte di quello che succede altrove.
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