di Antonella De Francesco
Non mi ha entusiasmata l’ultimo film di Ferzan Özpetek, La dea della fortuna, e me ne vorranno sicuramente i suoi fans sfegatati, perché il film racchiude in sè tutti i temi cari al regista: l’omosessualità, l’amore, il tradimento, la famiglia, il cibo, la figura materna ora divinizzata ora demonizzata, il fato imprevedibile che mischia le carte e scombina i destini. Insomma: è un concentrato di poetica Özpetekiana.
Va subito detto che tutti gli attori sono molto bravi e che le inquadrature ferme sui loro sguardi complici tra amanti, rassicuranti tra amici di una vita, dolci tra genitore e figli, valgono forse più dei loro scontati dialoghi e trasudano tutta la chimica dei loro rapporti.
Andando avanti, la storia, tanto per dirne una, non è priva di “controsensi” a cominciare dal tenore di vita dei due protagonisti Arturo (Stefano Accorsi) e Alessandro (EdoArdo Leo), che, se è vero come dice il secondo, che vivono con il solo suo stipendio di idraulico, di certo non potrebbero permettersi quella casa a Roma, in via della Lega Lombarda!
E ancora, mi sembra che le “ossessioni” di Özpetek, che ne fanno uno dei registi più riconoscibili dei nostri tempi, in realtà sono anche il suo principale limite. Una gabbia dentro la quale resta confinato, compiacendosene senza trovare ormai la vera profondità e l’autentica commozione dei suoi primi film (i migliori) .
La difesa ad oltranza della omosessualità che, ancora nel 2001, all’epoca di Saturno contro, rappresentava un tabù perfino nelle discussioni pubbliche e che, pertanto, oltre ad essere un tema assolutamente anti convenzionale, vestiva l’urgenza di essere affrontato in modo schietto e senza mezzi termini, oggi lo costringe a delle forzature a mio parere un po’ grottesche, in cui l’eterosessualità non ha più alcuna affidabilità (l’unico etero del film soffre di una gravissima forma di Alzheimer per cui in realtà non ricorda mai nulla), la famiglia tradizionale si basa su madri streghe che chiudono i figli negli armadi, degne eredi di Crudelia Demon, le donne restano sole e le uniche coppie capaci di rimanere insieme, pur dopo periodi di crisi e tradimenti, sono quelle omosessuali, a cui vanno affidate le sorti di tutti.
Stregato da Almodovar, per molti aspetti, esagera nell’evidenziare e sottolineare quei tratti di “diversità” che oggi piuttosto vanno considerati assolutamente normali, perché si rischia di ri-creare i pregiudizi, laddove sono scomparsi e rafforzarli laddove non sono mai scomparsi del tutto.
Qualche figura “etero” esente da “colpe” e “ autosufficiente” forse avrebbe potuto essere di aiuto per riequilibrare il gioco delle parti e per rendere più veritiero e naturale il messaggio che l’amore, l’amicizia, la solidarietà, al pari della cattiveria e della crudeltà non hanno sesso e sono proprie solo dell’animo umano. Quanto poi alla circostanza (voluta coincidenza ?) nell’ultima parte del film, per cui il pregiudizio sia ancora più marcato e viva nelle dimore anche nobiliari della Sicilia e di Palermo, che qui si può solo fare un bagno e scappare, che qui gli omosessuali si chiamano sempre e comunque “arrusi”, ci sarebbe davvero tanto da dire ….
Anche in questo caso, l’ossessione di Ozpetek per le dimore antiche, i misteri, la religiosità, già ampiamente manifestata nel film Napoli velata, torna a turbarlo e a limitarlo nella sua visione poco lucida della realtà in generale e di Palermo in particolare. Perché sarà vero che Palermo non è (più) la capitale della “cultura” ma è sicuramente un buon esempio di integrazione sociale e culturale, con buona pace di Ferzan Özpetek e della sua nazionalità turca!
Voto 5-
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