di Antonella De Francesco
La trasposizione da un testo narrativo alla sceneggiatura è impresa titanica e non tutti ci riescono. Le parole hanno molto contenuto e seguono uno schema più logico delle immagini e, soprattutto, fissano concetti che restano in mente più forti, monito per l’anima , mentre le immagini svaniscono.
Ho letto “Il senso di una fine” di Julian Barnes parecchi anni fa, quando dopo la vincita del Booker Prize nel 2011, divenne quasi un caso letterario . Ma davanti allo schermo mentre scorrevano le immagini del film tratto dall’omonimo romanzo , “L’altra metà della storia“, del regista Ritesh Batra, non ho riconosciuto niente, a partire dal titolo.
Trama e personaggi così magistralmente delineati nel libro, vengono a mala pena tratteggiati nel film e quello che nel libro è il risultato di una serie di accertamenti e di ricostruzioni faticose, tra i ricordi di ciò che è stato e ciò che ancora ci sembra sia accaduto e che lascia nel libro senza parole, allorché viene svelato, nel film è una scoperta quasi annunciata e senza alcun pathos.
Dove sono finiti i quattro brillanti compagni di college che discutevano di filosofia e di storia, in cerca di amori e ragazze in linea con l’imminente rivoluzione sessuale ? Che ne è stato di quel brillante alunno, Adrian, che campeggia nel romanzo stagliandosi sugli altri e del quale l’autore fa un ritratto così vivido e così commovente, che da lettore non puoi non rimpiangere di non avere mai avuto un amico così ? Perché “Il senso della fine” è stato volgarmente tradotto in “L’altra metà della storia” ? Forse per evitare che da subito si facesse un qualche rimando dal testo al film? Che ne è stato della voce narrante del libro?
Che ne è stato della inadeguatezza del protagonista della storia, Tony Webster, della sua frustrazione , dei suoi sogni infranti, del dolore per la perdita del suo migliore amico ? Infine perché non è stato tradotto sullo schermo quel sapore amaro che permea tutto il libro di Barnes, riguardo la sconfitta e il senso d’impotenza che proviamo tutti, ogniqualvolta siamo costretti ad ammettere che ad andarsene sono sempre i migliori ?
Il regista mi sembra troppo intento a voler dimostrare che la vita di ognuno di noi è una storia ricordata da ciascuno, noi compresi, diversamente da come è andata veramente, per poter rendere l’idea del libro che, il più delle volte, il dolore non si cancella, ma si lenisce raccontandosi un’altra verità e basta un niente a risvegliarlo e per suo tramite disseppellire emozioni, paure, rimorsi, che pensavamo di aver dimenticato per sempre. E a ben guardare indietro alla storia, forse non è escluso che una parte della responsabilità sia anche nostra e che, se non ce ne ricordiamo più , può ancora esserci qualcuno che si ricorda e ci ricorderà, un giorno, come è andata veramente.
Non vi consiglio il film ma, assolutamente, vi consiglio il libro, che medita sugli inganni del tempo e della memoria, che è pieno di frasi meravigliose sugli incontri, sulla perdita, sulla giovinezza, su quello che notiamo quando ci innamoriamo di qualcuno e di come, anche a distanza di anni, potremo ritrovare tra le rughe, quello stesso identico sguardo che, tra tanti, ci ha tolto il sonno .
Per inciso, Il gruppo di amici colti e saccenti esiste davvero ed era composto da alcuni dei migliori scrittori dell’epoca: Martin Amis, Ian McEwan, Salman Rushdie e Julian Barnes.
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