di Antonella De Francesco
In un luogo- non luogo, all’interno della periferia degradata di Napoli, al riparo dalla violenza delle strade limitrofe e dalle logiche della camorra, è ambientato il film del regista Leonardo Di Costanzo L’intrusa, acclamato all’ultimo festival di Cannes .
In una “masseria”, riconvertita per organizzare il dopo scuola dei figli di chi intende toglierli dalla strada e impegnarli in attività più proficue, svolge la sua attività di accoglienza Giovanna, coadiuvata da un equipe di insegnanti e operatori di ogni tipo. Il titolo potrebbe riferirsi già a questo luogo, “la masseria”, che con il suo verde strappato a forza tra i palazzi e la gioia dei sorrisi dei ragazzi che la frequentano, mal si coniuga con il degrado che la circonda. Ma più propriamente il regista vuole riferirsi ad una giovane donna, moglie di un camorrista, Maria, che con un figlio appena nato e la sua figlioletta di 10 anni trova asilo, con il benestare di Giovanna, in un piccolo casolare all’interno della masseria. E qui il regista ribalta completamente le prospettive di ciò che siamo abituati a pensare e a vivere e ci mette nelle condizioni di chiederci: ma noi tutti da che parte stiamo ?
Il tema dell’accoglienza, che di questi tempi va tanto di moda e raccoglie proseliti di sostegno verbale e acclamazioni di massa, deve fare i conti con le ragioni di chi non può essere accolto, secondo le logiche di quartiere. Per una volta la cinepresa non si limita a condannare la camorra, ma guarda con sguardo compassionevole a chi paga il prezzo della camorra tra le mura domestiche, ai figli e alle mogli dei camorristi e al disagio di dover continuare a vivere, laddove il loro congiunto e il loro padre ha ucciso .
E se in linea teorica tutti i bambini sono uguali, perché non hanno colpa delle scelte scellerate dei genitori, è al tempo stesso agghiacciante che si trovino a giocare nello stesso parco la figlia del camorrista e la figlia che ha assistito al pestaggio del padre per opera dello stesso camorrista, perdendo per sempre la parola.
Un film che non da risposte, ma suscita molteplici domande sul confine della solidarietà che dovrebbe spingersi fino a dove non può razionalmente andare e salvare anche chi più ha bisogno di essere salvato. Ma la violenza e la paura che incutono i camorristi resta marchiata a fuoco sui volti e sulle vite dei loro familiari. Negli occhi tristi di chi, sposando, forse costretta, un camorrista, resta il sogno spento di chi ha capito troppo tardi, ma vuole salvarsi lo stesso.
Il regista guida, lasciandoli fare, i protagonisti, scelti sapientemente tra la gente comune e attori non professionisti che si prestano ad inquadrature ravvicinate splendide ed eloquenti, mentre parlano il loro dialetto napoletano con sottotitoli, costringendoci a guardare oltre la siepe, dove il buonsenso e la logica spicciola stentano ad arrivare.
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