di Antonella De Francesco
Si apre con la scena di un uomo che va a trovare un suo amico nel bel mezzo di un tipico paesaggio irlandese, in cui le verdi scogliere sfidano il grigio del mare e del cielo, il nuovo film scritto e diretto da Martin McDonagh dal titolo Gli spiriti dell’isola ( giustamente candidato a più Oscar). Quel gesto si rivela subito un “rituale”, per nulla scontato e assolutamente necessario che si compie tutti i giorni: l’incontro quotidiano con l’amico di sempre e l’appuntamento per una pinta di birra al doppio malto nell’unico pub del villaggio. La scena si vede una sola volta, ma è così ben tratteggiata che il regista ce la rende subito familiare, come se l’avessimo percorso noi quel sentiero tutti i giorni .
Per questo proviamo una tenerezza disarmante nell’osservare Pádraic Súilleabháin (Colin Farrell) quando all’improvviso si vede respinto dal suo unico vero amico di una vita, Colm Doherty (Brendan Gleeson) senza un’apparente ragione: perché noi a quel rituale ci eravamo già affezionati. E il suo stupore è il nostro stesso stupore, la sua pena la nostra stessa pena, mentre non si dà pace, viene assalito dagli interrogativi, dai sensi di colpa, va a ritroso col pensiero perché non ricorda di avere fatto nulla di male al suo unico vero amico. In amore e in amicizia, si sa i legami si saldano in modo da diventare unici e indispensabili per chi li vive e la loro fine richiede almeno una spiegazione per chi la subisce. Molto probabilmente
la spiegazione non sarà quella che ci aspettiamo e quasi mai basterà per farcene una ragione. Continueremo a farci domande, esigere risposte, mentre la nostra vita non è più come prima. Non tutti sanno lasciare andare ..
La fine di un’amicizia diventa nel piccolo villaggio un fatto privato di rilevanza sociale e corale, in cui ciascuno ha la sua parte ed il regista tratteggia magistralmente tanti personaggi nel villaggio (interpretati tutti da attori eccellenti), che riempiono la scena di segreti, peccati e peccatori, a fasi alterne osservatori silenti o implacabili giudici della vita altrui. Sullo sfondo di una natura immutabile e grandiosa che alterna l’alba al tramonto, stagioni a stagioni, azzurro e grigio senza stancarsene, il regista ci mostra come l’uomo non soltanto non conosce il “per sempre” ma resta imprigionato nelle sue fobie, nelle sue stranezze, nelle sue bassezze. Perfino l’uomo più innocuo può mutare atteggiamento verso la vita, travolto da una spirale di odio e di autodistruzione grottesca e via via sempre più assurda.
Ci sono dialoghi “semplici” e magnifici su cosa resterà di noi e di quanto poco valga a questo mondo la gentilezza. Su come l’essere pacifici ci renda “noiosi”.
Scena dopo scena, si rafforza l’idea che l’uomo non riesce a stare in pace con se stesso e con gli altri, non sa cogliere la bellezza dell’armonia che lo circonda, il privilegio di poter godere a lungo di poche cose semplici e autentiche.
Il regista per tutto il film interseca la vita degli uomini e degli animali e, ad un certo punto , sposta su questi ultimi l’attenzione. Lo fa con una delicatezza incredibile e dimostra con semplicità quanto essi (metafora degli innocenti travolti dall’odio altrui), al contrario dell’uomo, siano fedeli, quanto e come sappiano consolarci, riempire vuoti e silenzi senza parole, dimostrando , a chi ancora fosse scettico , che da loro abbiamo solo da imparare.
Sullo sfondo c’è la guerra civile del ‘23 in Irlanda , in primo piano la rottura di una amicizia e l’inizio di una faida all’ultimo sangue che travolge tutti.
Il fatto è solo il pretesto per svelare la natura dell’uomo e le irreparabili conseguenze di una guerra fratricida. Sullo schermo l’immensità dei due protagonisti e di tutti gli abitanti del villaggio che affidano a sguardi, gesti e parole la ricerca di un finale possibile per loro e per la loro vita .
Da non perdere. Attori e fotografia (Ben Davis) eccellenti .
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