di Antonella De Francesco
Un film sofisticato e cinematograficamente ben costruito, l’ultimo film di Luis Ortega, prodotto da autori diversi tra cui Pedro e Augustin Almodovar, dal titolo L’angelo del crimine, che narra la storia vera di un noto delinquente argentino, Carlos Robledo Puch, condannato per undici omicidi, un tentato omicidio, diciassette rapine, uno stupro, un abuso sessuale, due sottrazioni di minorenne e due furti. Detenuto dal 1973 in Argentina, più noto come l’angelo della morte anche per l’irriducibile contraddizione del suo viso angelico con la sua ferocia .
Un adolescente libero, nato per compiere il male senza un fine, si muove con lentezza, quasi svogliatamente tra un furto e un efferato omicidio e lo fa con una tale freddezza da rendere noncurante e indifferente persino lo spettatore. E a niente valgono il buon esempio, l’amore e i tentativi reiterati dei suoi genitori di riportarlo sulla retta via. Accompagnato dal suo complice e compagno Ramon (interpretato magistralmente da Chino Darín), così diverso da lui e con una famiglia alle spalle agli antipodi, i due sono perfettamente complementari nella scena come nella vita, legati l’uno a l’altro da un legame perverso che è reso sulla scena in maniera perfetta, e, pur senza volgarità, in modo inequivocabile.
Personaggio seducente nelle sue pose lascive e nei suoi sguardi languidi carichi di grande erotismo, nelle movenze pop anni ‘70, c’è, a mio parere, molto più Almodovar in questo film che in Dolor y Gloria e certamente c’è molto del cinema tipicamente argentino. Omosessualità, eterosessualità, famiglia, madri amorevoli e spregiudicate, periferie, riprese alla Kubrick (da cui mutua l’attenzione maniacale alla fotografia ) e rimandi a Tarantino (per quel contrasto costante tra l’efferatezza dei suoi crimini e la dolcezza con cui guarda e si rivolge alla madre o a chiunque nella vita quotidiana). Pregevole e godibile il sottofondo musicale di temi pop e blues indimenticabili che hanno fatto storia negli anni settanta come La casa del sol naciente, cantata da Palito Ortega, padre del regista, che vi resteranno dentro ben oltre la fine del film.
Encomiabile la recitazione del giovane attore Lorenzo Ferro nei panni del protagonista, Carlitos, che, con il suo viso angelico ed efebico, dimostra come non sempre il male ha sembianze sgradevoli alla vista ma, al contrario, può anche celarsi dietro un aspetto rassicurante e accattivante a dispetto delle note teorie criminologhe di Lombroso, a cui pure nel film si accenna.
Un film che può anche non piacere a tutti, ma sul cui valore di riprese e sceneggiatura non si può non essere d’accordo.
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