(Gaetano Perricone). “In breve cerco di informarvi sull’iniziativa da me presa per ricordare la deviazione del 1983. Alcune favorevoli coincidenze mi hanno indotto a questa decisione, il 2023 è il quarantesimo anno dalla deviazione, nel 2023 compio i miei primi 90 anni, il mio stato di salute è buono e mi permette di affrontare l’impegno. Ho pensato quindi di tornare, dopo 40 anni all’Etna e nell’occasione di fare celebrare una messa in memoria dei miei colleghi nel frattempo deceduti”.
Con queste poche e semplici parole in una email, l’ingegnere Gianni Ripamonti, tra i protagonisti fondamentali della deviazione di lava con l’esplosivo sul nostro vulcano realizzata nella notte tra il 13 e 14 maggio 1983, la prima volta nella storia, mi ha annunciato la sua bellissima, emozionante e commovente iniziativa di ritornare sull’Etna per ricordare l’evento e commemorare sulla Muntagna i colleghi che parteciparono con lui in prima linea e che oggi non ci sono più.
L’ho incontrato un paio di giorni fa, mi ha raccontato molte cose di quello che rimane nella storia dell’Etna come “l’intervento” ed è stato un arricchimento prezioso: un uomo brillante, ancora pieno di energie, di grande competenza nel settore specifico, che rammenta quel periodo breve (venti giorni) ma intensissimo sul nostro vulcano come un’esperienza unica e straordinaria nella sua vita. Stamattina, sabato 13 maggio, è in programma alle 10,30 nell’aula consiliare del Municipio di Nicolosi un incontro di rievocazione, promosso dall’ANIM (Associazione Nazionale Ingegneri Minerari) e dall’Istituto Ascanio Sobrero sugli esplosivi, con video e testimonianze di chi c’era; domani, domenica 14 maggio a mezzogiorno, nella chiesetta di Santa Maria delle Nevi a Piano Vetore, la Messa in ricordo. L’ingegnere Ripamonti ha aggiunto sorridendo: “Ho voluto fare adesso questa cosa perché non so se arriverà al cinquantenario della deviazione, che per me sarà il centenario”. Glielo auguriamo dal profondo del cuore, ringraziandolo per averci coinvolto, riferendosi in modo particolare all’articolo de IlVulcanico.it di cinque anni fa, con la bellissima testimonianza anche fotografica di Luciano Signorello (https://ilvulcanico.it/etna1983-il-tentativo-in-quel-cantiere-della-deviazione-io-cero-la-testimonianza-e-la-fotocronaca-di-un-protagonista/). A seguire, la minuziosa e documentatissima ricostruzione del grande Santo Scalia, attraverso vari articoli di stampa, dei giorni che precedettero la deviazione di lava del 1983 fino alla grande esplosione (360 chili di cariche) della notte di quaranta anni fa: per la cronaca, fu un signore che si chiamava Ezio Schiavi a pigiare il pulsante.
di Santo Scalia
Nella notte tra il 13 ed il 14 maggio del 1983, sull’Etna, fu effettuato il tentativo di modificare il corso di una colata lavica che minacciava i territori dei comuni di Nicolosi e di Belpasso, nonché i terreni e le abitazioni di Ragalna (che all’epoca dei fatti non era ancora un comune autonomo ma era parte del comune di Paternò).
Tutto era cominciato il 28 marzo, quarantasei giorni prima: l’Etna non eruttava da due anni, da quando (tra il 17 ed il 23 marzo 1981) aveva messo in serio pericolo l’abitato di Randazzo; ciò era però avvenuto nel versante settentrionale del vulcano, non in quello meridionale. L’ultima volta che le lave erano scese verso sud risaliva al 1910, quando le colate, sempre in marzo, si erano spinte fino alla quota di 700 metri dopo aver percorso quasi 10 chilometri.
Questa volta una frattura eruttiva si era aperta, alle 11,15 del mattino, da quota 2450 fino a 2250 metri, a conclusione di una crisi sismica che aveva registrato più di duecento scosse, localizzate poco più a valle della Montagnola. La pericolosità di quanto stava accadendo fu subito evidente: in poche ore le colate avevano travolto la sciovia, alcuni piloni della funivia, la Cantoniera; avevano anche tagliato in due la strada provinciale SP92 quasi a ridosso del Rifugio Sapienza.
Nei giorni che seguirono stessa sorte toccò al Ristorante Corsaro, alla cabina elettrica, alla casermetta dei Carabinieri, all’altarino dedicato alla Madonna delle nevi, al rifugio Edelweiss e al villino dei fratelli Nicoloso. Lo stesso Rifugio Sapienza fu raggiunto dalle lave che lo investirono e vi si addossarono raggiungendo l’altezza del primo piano, senza però abbatterlo.
La strada provinciale per Nicolosi fu interrotta in numerosi punti e sparirono tante strutture private, oltre al ristorante La Quercia. Il pericolo per i centri abitati cresceva di giorno in giorno. A quel punto, i sindaci dei comuni interessati cominciarono a chiedere a gran voce un intervento da parte del Governo.
Quelli che seguono sono solo alcuni dei titoli che la stampa locale, interpretando i desideri delle popolazioni minacciate, pubblicò nei giorni dell’ultima decade di aprile del 1983:
Già in passato – sull’Etna, ma anche su altri vulcani – si erano tentate soluzioni allo scopo di cercare di mitigare i danni causate da invasioni laviche: nel 1669, nel corso dell’eruzione che devastò il versante meridionale dell’Etna arrivando fino a Catania e al mare, un manipolo di uomini, utilizzando arnesi rudimentali come pertiche e picconi, coprendosi con pelli animali bagnate, tentò di rompere l’argine laterale della colata.
Nel 1832, secondo quanto ci dice lo storico brontese Benedetto Radice (in Memorie storiche di Bronte), pare che Don Giuseppe Alvaro Paternò, principe di Manganelli, consigliato da tale ingegner Musumeci, «[…] per rendere più facile la caduta della lava nella valle della Barriera e allontanare così il pericolo da Bronte […]» abbia fatto realizzare dei muraglioni “a secco” per indirizzare il corso della lava.
Negli anni ‘50 del secolo scorso, nell’isola di Hawaii, per salvare terreni coltivati e la stessa città di Hilo minacciati dalle colate del vulcano Kilauea, furono realizzati sbarramenti artificiali e, senza alcun esito positivo, pare sia stata lanciata dall’aviazione americana qualche bomba contro gli argini della colata.
Nel 1973, in Islanda, nell’isola meridionale Vestmannaey, il porto della cittadina fu difeso con successo indirizzando contro i fianchi della colata getti d’acqua di mare; furono impiegate decine di pompe cercando di raffreddare e solidificare un lato della colata, creando così un argine e costringendo la lava a defluire verso la direzione opposta.
Stavolta invece, per la prima volta nella storia – non solo in quella dell’Etna – ci si proponeva di utilizzare dell’esplosivo posto “in loco” ed in quota, per aprire una breccia su un fianco della colata, sperando di far fuoriuscire lateralmente la lava costringendola a ricominciare il suo percorso in discesa parallelamente a quanto avesse già fatto.
La decisione era presa!
Il Ministro del Coordinamento della Protezione Civile On. Loris Fortuna, ricevuti dal governo nazionale i poteri straordinari per realizzare l’intervento, incaricò il tecnico svedese Lennart Abersten e l’ingegnere Gianni Ripamonti di preparare un piano d’intervento.
Da quel momento fu tutto un susseguirsi di scavi, movimenti di terra, test di esplosivi, riunioni, progetti, perforazioni; una lunga teoria di autocarri ed escavatori, tecnici ed operai, vulcanologi ed ingegneri che si alternavano sulle pendici dell’Etna in prossimità del Monte Castellazzo. Le dichiarazioni, i progetti e le relative modifiche, le proteste e le proposte si rincorrevano con frenesia.
Nei locali della Prefettura, a Catania, le riunioni erano continue. Il Prefetto Abatelli, il consigliere del ministro della Protezione Civile Schiavello, gli ingegneri Abersten, Ripamonti, Gustavsson, Volpe; il Professor Sbacchi, i vulcanologi Barberi, Cristofolini, Villari, Cosentino e tanti altri studiosi si confrontavano per giungere alla soluzione più adeguata. Intanto, nel cantiere di Monte Castellazzo, fervevano i lavori.
Nei giorni successivi si scatenò una corsa alla previsione del momento in cui l’uomo con i suoi esplosivi si sarebbe confrontato con il vulcano e le sue lave.
A causa di imprevisti ed eventi inattesi, il momento dell’intervento fu più volte rinviato; i lavori di assottigliamento dell’argine della colata, nel quale erano stati inseriti i tubi che avrebbero poi accolto le cariche esplosive, avevano comportato un ispessimento dell’argine nella sua parte interna, diminuendone di conseguenza la sezione e causando un innalzamento e la tracimazione della materia incandescente. Termodinamica, reologia e dinamica dei fluidi avevano più volte reso quasi vano il lavoro già svolto, costringendo i tecnici a ricominciare il processo, tenendo conto di quanto già sperimentato.
Poi, finalmente, mentre inviati da tutto il mondo seguivano con vivo interesse quanto avveniva sull’Etna, alle 4:09 del mattino del 14 maggio si poté far brillare l’esplosivo: un timido braccio di lava si incanalò nel tracciato opportunamente e preventivamente approntato per accoglierlo, diminuendo la portata del flusso lavico.
La mattina del giorno 14 maggio, il principale quotidiano catanese, La Sicilia, uscì annunciando che ancora nulla era avvenuto sull’Etna: l’impaginazione del quotidiano numero 130 era, ovviamente, stata realizzata nelle prime ore della notte, quando a causa dei continui rinvii l’esplosione non era ancora stata effettuata. Le copie del giornale erano state già consegnate ai distributori e poste già in vendita dagli edicolanti.
Poi, giunse la conferma che le cariche esplosive erano state innescate. Precipitosamente la prima pagina fu modificata, si fece ciò che in gergo si definisce una “ribattuta”: le nuove copie del quotidiano sostituirono velocemente le precedenti, ormai obsolete, e trionfalmente si comunicò che la battaglia contro il vulcano era stata vinta. Senza voler minimamente dare una valutazione sull’opportunità, o meno, dell’intervento o della validità, o meno, del risultato raggiunto, ho voluto soltanto, facendo uso di alcune pagine della mia personale collezione di ephemera, rievocare i fatti accaduti quarant’anni fa, e condividere una rarità giornalistica, la ribattuta, per l’appunto.
E queste sono le pagine di quei giorni del quotidiano L’Ora di Palermo, i cui cronisti furono meno trionfalistici nella valutazione iniziale dell’intervento.
Quarant’anni fa, quella notte, pur disponendo di un permesso rilasciato dal Prefetto, non ho potuto essere presente sul luogo dell’intervento. Per comprensibili motivazioni i permessi che consentivano di raggiungere le aree interessate dall’eruzione non erano stati ritenuti validi per assistere alla deviazione. Per ciò era necessario un ulteriore permesso che, ahimè, non fui in grado di ottenere.
Con il titolo: il momento dell’esplosione delle cariche per deviare la colata (da Famiglia Cristiana – collezione personale)
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