Da “Il Giornale delle Fondazioni”, riportiamo integralmente una interessantissima intervista di Vittorio Azzarita al professore Arjo Klamer, economista della cultura di grande fama, docente presso l’Erasmus University di Rotterdam e presidente della “Association of cultural economists”.

Prof. Klamer, viviamo in un periodo di insicurezza e incertezza caratterizzato dal più alto livello di disuguaglianza tra le persone ricche e il resto della popolazione degli ultimi cinquant’anni. In tale contesto, quali sono le sfide principali che il settore culturale deve affrontare al giorno d’oggi?
Il settore culturale, che comprende tutte le organizzazioni e le persone che si dedicano alla realizzazione dei valori culturali, svolge sia un ruolo terapeutico che edificante. La funzione terapeutica consiste nel porsi domande scomode, impegnative e volte a ottenere maggiori informazioni. Si pensi a domande come: “perché noi, benestanti come siamo nel mondo sviluppato, sembriamo essere così ossessionati dalle grandezze quantitative come il PIL e la sua crescita, il profitto, le entrate, l’impatto economico, e la ricchezza finanziaria? Perché misuriamo il valore dei nostri edifici e non quello delle nostre ‘case’? Oppure perché ci sono così tante persone arrabbiate? Per la paura degli stranieri, delle altre religioni?”.
La prossima sfida per il settore culturale sarà quella di essere edificante, ossia di fornire i concetti, le storie, le immagini, la musica capaci di rispondere in qualche modo alle nostre domande, di consentire alle persone di far fronte alle incertezze di questi tempi. L’edificazione, o se preferite l’educazione, è un risultato fondamentale delle pratiche culturali. Per molti anni, i grandi artisti sono stati impegnati a sovvertire e a mettere in discussione le idee e gli ordini prestabiliti. Oggi è giunto il tempo di focalizzarsi su una ri-valutazione delle idee e dei lavori che hanno condiviso la nostra civiltà.

Se si prendono in considerazione la Brexit e la frustrazione dei cittadini europei nei confronti della democrazia rappresentativa, è possibile affermare che le persone stanno perdendo il loro senso di appartenenza a un progetto europeo. Dal suo punto di vista, la cultura dovrebbe svolgere un ruolo maggiormente rilevante sia a livello europeo che a livello locale al fine di trovare modalità innovative attraverso cui rafforzare la nostra comune identità?
La cultura è stata l’elemento mancante del progetto europeo, come Jean Monnet – uno dei suoi padri fondatori – ha messo in evidenza. Il progetto è stato principalmente un progetto governativo, ossia un progetto fatto di organizzazione, di costruzione del sistema, e troppo poco un progetto sociale e culturale fatto di persone che scoprono i loro obiettivi e valori comuni mentre prendono parte a nuove storie attraverso esperienze condivise. Esemplare a questo proposito è la frammentazione delle notizie e del modo in cui sono trasmesse ai cittadini europei. Al contrario, gli americani condividono bene o male le stesse informazioni. Quando succede qualcosa a Washington, tutti i mezzi di comunicazione ne parlano. Quando accade qualcosa a Bruxelles, i media nazionali degli altri Paesi europei restano prevalentemente in silenzio.
Sicuramente, ci sono molteplici programmi di scambio che stimolano gli studenti a studiare in altri Paesi europei. Sicuramente, gli europei fanno grandi affari insieme e viaggiano in tutta Europa. Tuttavia questo non ci ha condotto verso una cultura comune, di qualsiasi tipo. Forse gli europei hanno un’identità distinta e condivisa quando operano al di fuori dell’Europa, ma in Europa una tale identità non si fa sentire. Non credo che tale identità si realizzerà in un prossimo futuro.

Prof. Klamer, negli ultimi anni lei ha lavorato alla formulazione di un nuovo approccio all’economia basato sul valore e definito “value based approach”. I risultati delle sue ricerche sono poi confluiti nel suo ultimo libro Doing the Right Thing: A Value Based Economy, che sta presentando proprio in questi giorni in giro per l’Olanda. Qual è la tesi al centro del libro?
In un certo senso ho già fatto riferimento alla tesi centrale del libro quando ho sottolineato la differenza tra il prezzo di un appartamento e i valori di una casa, intesa nell’accezione inglese del termine “home”. Quando Piketty definisce l’inuguaglianza, egli considera i prezzi di assett come le case, ma non tiene conto dei nostri “averi” più importanti come le nostre relazioni familiari, le nostre amicizie, le nostre conoscenze, la nostra arte, la nostra società, la nostra civiltà. Questi ultimi sono beni carichi di valore, ma che non possiamo né comprare né vendere.
Io ridefinisco l’economia come la disciplina che studia la realizzazione di valori. La realizzazione implica l’essere consapevoli di quali sono i valori importanti e di come renderli reali, ossia della loro valorizzazione.
Nel libro mostro che la valorizzazione si realizza soprattutto a casa, nella sfera privata, nell’ambito sociale – che rappresenta la sfera delle relazioni informali – , nella sfera del mercato e nella sfera del governo (si pensi ad esempio alle organizzazioni).
L’approccio basato sul valore si presta molto bene a sostenere pratiche economiche alternative, come l’economica condivisa e l’economia circolare.

Quali sono le principali differenze tra l’approccio basato sul valore e l’approccio strumentale che prevale ancora oggi?
L’approccio strumentale enfatizza la dimensione quantitativa della vita sociale ed economica. L’approccio basato sul valore fa riferimento invece alle qualità. Quando assegniamo un valore a una casa (intesa come “home”), la quantificazione di qualsiasi cosa (il numero di mezzi condivisi, i minuti trascorsi con i bambini, i soldi spesi per le vacanze) è più o meno irrilevante. Una buona casa ha delle caratteristiche qualitative come il calore delle relazioni, l’intimità, la gioia che viene condivisa, la possibilità di fare delle belle conversazioni, la condivisione di esperienze e così via. Ciò che si può applicare alla nostra casa, si può applicare a tutte le altre dimensioni della vita. Anche in ambito commerciale, la qualità del lavoro, della cultura condivisa, dei servizi offerti, è fondamentale.
L’approccio basato sul valore, quindi, dirige l’attenzione verso ciò che è importante per le persone, le organizzazioni e le società. Così mentre l’approccio strumentale ci spinge a porci domande come “che cosa vuoi?”, l’approccio basato sul valore ci incoraggia a domandare “che cosa è importante per te?”.
Nel mio libro mostro come l’approccio basato sul valore è molto più funzionale di quanto lo sia l’approccio strumentale, in quanto dice alle persone e alle organizzazioni che cosa fare. L’approccio strumentale cerca di dire ai politici cosa devono fare, ma non è molto efficace nel farlo.

Oggigiorno, stiamo assistendo a un dibattito cruciale sulla valutazione dell’impatto sociale sia nel settore culturale che nella sfera del non profit. Sulla base del suo ultimo libro, esiste una correlazione tra l’approccio basato sul valore e gli studi di impatto sociale?
Impatto sociale e impatto culturale: entrambi i concetti sono indicativi di un’importante nuova tendenza che si sta registrando nelle politiche. A lungo i politici sono apparsi interessati esclusivamente alle misure quantitative, quali il numero di visitatori e l’impatto economico. La realizzazione ha fatto emergere che le attività culturali generano di solito impatti sociali e culturali. Nel mio libro presento un metodo per valutare questo tipo di impatti. Tale metodo comprende il chiedere alla gente: “cosa è importante per voi?”.

In qualità di esperto e di Presidente della Association for Cultural Economics International (ACEI), lei ha un punto di vista privilegiato sulla discussione scientifica nel campo dell’economia della cultura. Secondo lei, le attuali politiche culturali europee stanno andando nella giusta direzione?
Non ne sono sicuro. Vorrei che ci fosse un maggior interesse nei confronti dell’impatto della cultura. L’importanza di mantenere pratiche artistiche è spesso trascurata nella nostra società. I musicisti hanno bisogno di trovare persone con cui condividere la loro musica e gli artisti visivi hanno bisogno di essere presenti negli ambienti che sono in grado di apprezzare il loro lavoro. In realtà dubito che una politica culturale sia possibile. La cultura si forma, accade tra le persone nel corso delle loro interazioni engelsiane. Il governo dovrebbe avere un ruolo in questo processo? Oppure dovrebbe preoccuparsi, attraverso l’istruzione scolastica, di educare tutti i bambini a una sensibilità artistica e ad essere competenti nelle pratiche culturali?

Lei è anche il co-fondatore di CREARE (Centre for Research in Arts and Economics), una fondazione che ha lo scopo di migliorare la ricerca e l’educazione nel campo dell’economia della cultura attraverso programmi formativi e servizi di consulenza. La Summer School è la principale attività di CREARE. Può dirmi qualcosa di più su CREARE e il suo corso maggiormente rappresentativo?
Ogni anno organizziamo ad Amsterdam il corso “Value of Culture”. Negli ultimi anni l’approccio basato sul valore è stato l’argomento centrale del corso. Inoltre discutiamo di economia della cultura, di politiche culturali e di imprenditorialità culturale. Al corso partecipano persone che vengono da tutto il mondo. Alcuni di loro dopo hanno intrapreso un dottorato in economia della cultura, hanno collaborato con altri studenti su alcuni progetti, oppure hanno apportato cambiamenti nelle loro attività in funzione del corso che hanno frequentato. Sono molto soddisfatto sia dell’impatto sociale che culturale del corso.

CREARE, insieme alla Erasmus University e al Rotterdam Unlimited Festival, sono stati selezionati dalla European Research Partnership on Cultural and Creative Spillovers per testare nuovi metodi di valutazione degli “spillover effects” prodotti dalle industrie culturali e creative. In particolare, il suo gruppo di ricerca ha applicato il “value based approach” al caso del Rotterdam Unlimited Festival. Quali sono i principali risultati del progetto?
Nel caso di un festival abbiamo individuato un impatto principalmente sociale. Non abbiamo potuto rilevare un significativo impatto culturale nonostante questo fosse importante per gli organizzatori. La ricerca li ha incoraggiati a riconsiderare il loro approccio. Nel contesto italiano abbiamo scoperto che l’applicazione del “value based approach” ha portato a un consistente incremento della consapevolezza sia dei propri obiettivi che degli stakeholder rilevanti. Questo ha avuto un impatto profondo sui progetti.

Il suo libro “Conversations With Economists” è considerato un libro da leggere. Oggi, quale economista le piacerebbe intervistare?
Attualmente preferirei intervistare le persone che operano nel settore culturale e che perseguono in maniera consapevole obiettivi relazionali, sociali e artistici. Temo che la professione economica non abbia prodotto economisti capaci di catturare la mia attenzione. Forse le esigenze della vita accademica soffocano la creatività e l’originalità. Le pratiche economiche attuali sono poco sorprendenti – io temo – e non generano alcuna nuova visione. E questo è davvero un peccato. Naturalmente spero che il “value based approach” dimostri di essere una valida alternativa.

Gaetano Perricone

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