di Marco Neri
“Marco, tra poco andrò in pensione. Vorrei lasciare un segno del mio lavoro presso l’INGV. Mi dai una mano?”
Con queste parole, prima del Covid-19, in un tempo che sembra lontano come un’antica era geologica, il mio caro amico e collega Alfio Amantia mi confidava il suo desiderio.
“Cos’hai in mano?”, risposi io.
“Qualche migliaio di fotografie, dell’Etna e non solo!”, disse Alfio, scrutandomi con finta modestia.
A dire il vero, non ci ho pensato molto. Tra una battuta, un caffè ed una sbirciatina al computer ed ai cataloghi, abbiamo iniziato a sfogliare il suo archivio, veramente grande. Tanto grande che ci si poteva facilmente perdere, divagando pericolosamente tra ricordi, aneddoti e situazioni belle da raccontare, ma assai poco pratiche rispetto all’obiettivo che ci eravamo proposti. “Occhi chini e manu vacanti”, giravamo a vuoto, con gli occhi pieni di colori e forme, ma senza riuscire a tradurre ciò in un’idea concreta.
Poi siamo finiti dentro un album di foto con elicotteri, uomini in divisa, lave aggressive e profili affilati. Erano gli scatti che documentavano l’eruzione dell’Etna del 1991-1993 e subito abbiamo capito che quello era l’argomento giusto. Il “nostro” argomento.
Lo sentivamo nostro perché è stata una eruzione grande, impetuosa, violenta, ed eravamo entrambi abbastanza giovani da non avere mai avuto occasione di confrontarci prima con qualcosa di simile. E così abbiamo iniziato a selezionare le fotografie, molte delle quali erano diapositive, provando a dare un senso cronologico, ed anche emotivo, agli avvenimenti. Un lavoro di selezione, restauro e digitalizzazione del materiale tutto sommato non troppo difficile, anche se lungo e comunque complesso.
Poi, però, bisognava dare un senso a tutto questo lavoro. Occorreva trovare una forma, un mezzo, che fosse capace di utilizzare quel materiale rendendolo vivo ed attuale.
Ci ho pensato sopra un po’ e poi mi sono detto: è stato un evento eccezionale, per me così come per tutti coloro che hanno vissuto in prima persona quegli eventi. Non devo fare altro che raccontarli con i miei occhi di allora, tirando dentro emozioni stratificate nel mio animo ed apparentemente dimenticate. Quelle emozioni tornavano prepotenti alla mente esaminando panorami di lava immensa e violenta, scrutando i volti di persone care che non ci sono più, ammirando l’abilità tecnica e politica di grandi professionisti. Si può fare, dovevo solo riuscire a tornare un po’ il ragazzo che ero allora, con l’intero, inevitabile bagaglio di ingenuità ed entusiasmo.
L’entusiasmo ce l’ho ancora.
Il resto è venuto da sé, in modo naturale e veloce. Il libro “Etna, il Nemico Sbagliato” edito da EtaBeta, racconta di questa grande eruzione, ma non solo. Nel corso della sua progressione, la colata lavica ha attraversato luoghi stupendi come il Piano del Trifoglietto, il Salto della Giumenta, Monte Calanna e l’omonima valle, fino a superare Portella Calanna nelle ore più drammatiche, quando Zafferana Etnea sembrava ormai persa. Tutti questi luoghi sono raccontati anche per quello che rappresentano dal punto di vista geologico, ma senza entrare troppo nel tecnico.
L’eruzione, poi, con le azioni di contenimento e di deviazione della colata lavica che hanno, di fatto, salvato Zafferana Etnea, si presta a molteplici considerazioni, spesso di segno opposto. C’è chi l’ha vissuta come una sfida vinta e chi l’ha subita come un incubo angosciante. Chi l’ha vista come un successo tecnico-scientifico clamoroso e chi, al contrario, ha raccontato quei successi come avvenuti per intercessione divina. E non sono mancati, come accade ancora oggi, improvvisati “vulcanologi” dell’ultima ora sempre pronti alla critica feroce e un po’ gratuita.
Non mi permetto di giudicare. Esistono spazi in cui il diritto di critica è sacrosanto e ciò va tutelato. Quello che non dovrebbe mai mancare, però, è l’equilibrio, l’onestà intellettuale, l’empatia verso chi soffre così come verso chi è chiamato a rispondere e ad assumere decisioni immediate che implicano responsabilità enormi, forti principalmente della propria competenza tecnica e scientifica.
Di certo, bisognerebbe smetterla di vedere il vulcano come un nemico da combattere. Se da un lato la deviazione della colata lavica è stata un evidente successo, dall’altro ho l’impressione che, da quel momento in poi, si è progressivamente affermata nelle popolazioni etnee l’idea che il vulcano si possa “combattere” e “vincere”, piegandolo alle esigenze degli uomini. In realtà, gli interventi di contenimento e deviazione delle lave eseguiti nel 1992 furono possibili perché si aveva la ragionevole certezza che le colate deviate non avrebbero invaso altri territori urbanizzati, e che avrebbero ricoperto un’area confinata dentro la Valle del Bove. In qualunque altro luogo esterno alla valle, una deviazione simile avrebbe innescato contenziosi legali enormi.
L’unica cosa che possiamo intelligentemente fare è evitare di espandere i centri abitati a ridosso delle quote medio-alte del vulcano, le più esposte all’invasione di future colate laviche. Senza, mai dimenticare, comunque, che viviamo sulle falde di uno dei vulcani più attivi al mondo e che, quindi, non sarebbe certo strano se un domani neanche troppo lontano dovessero ripetersi eruzioni simili, se non peggiori, a quella del 1991-1993.
D’altra parte, l’Etna esiste da mezzo milione di anni, mentre l’uomo, forse, calpesta le sue pendici da appena qualche millennio. Quindi, chi è il padrone di casa?
Il libro “Etna, il Nemico Sbagliato”, si può acquistare qui:
Con il titolo: la copertina del nuovo libro di Marco Neri, con le foto di Alfio Amantia (nella gallery)
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