(Gaetano Perricone). Letizia Battaglia, grandissima fotoreporter e artista della foto, ci ha lasciati una settimana fa, il 13 aprile e non si è ancora spenta l’eco del cordoglio, commosso e unanime, del mondo della cultura, del giornalismo, della politica. Un riconoscimento planetario degno di una donna straordinaria, grande Maestra. Battaglia di nome e di fatto, per tutta la vita, vera guerriera per le lotte che ha condotto per legalità e giustizia, per il suo impegno sociale oltre che professionale.
Come ha raccontato, è stato per lei fondamentale il periodo di lavoro a L’Ora, lo storico piccolo-grande giornale palermitano. In un articolo pubblicato a maggio del 1992 su “Giornalismo siciliano”, periodico dell’Associazione siciliana della stampa, sindacato dei giornalisti siciliani, interamente dedicato alla dolorosa chiusura del giornale l’8 maggio di trent’anni fa, Letizia scriveva: “…Per alcuni anni fu esaltante. Essere giornalisti, o fotografi dell’Ora, voleva dire onore e rispetto. I colleghi stranieri ti consideravano in trincea. E in realtà un po’ tutti o quasi lo eravamo. Si era antifascisti, e questo per i cronisti, a causa delle botte e delle tensioni era un problema plausibile se si pensa che i nostri fascisti allora militava il poi tristemente famoso Concutelli. Quasi come in trincea, ma correndo. Ricordo che non esistevano né notti, né domeniche, né giorni di festa. I fotografi dovevano essere sempre pronti, sempre a disposizione, e non essendo ancora stati inventati i telefonini, la reperibilità continua esigeva sacrifici immani. Specialmente quando incominciarono gli anni terribili legati alla cronaca di mafia più dura, quando incominciarono a cadere magistrati, poliziotti, giornalisti e uomini di valore che combattevano la corruzione e la prepotenza mafiosa. Omicidi, disperazioni, arresti, processi. Fu correndo, con una camera al collo, gli zoccoli calzati in estate e in inverno perché contenevano meglio delle scarpe i gonfiori di ore e ore di attese, che presi coscienza dal vivo di tutto quello che stava capitando in questa città. La redazione era un palpito visibile di testimonianza e indignazione”.
E noi, ragazzi de L’Ora che con Letizia abbiamo condiviso pezzi memorabili del nostro mestiere e della nostra vita, l’abbiamo ricordata e omaggiata con tante bellissime parole sulla pagina Facebook di memoria e attualità “L’Ora edizione straordinaria”. Li abbiamo intitolati semplicemente “Pensieri per Letizia”. Il mio carissimo collega de L’Ora e amico di sempre Roberto Leone ne ha messi insieme un po’ in questo emozionante articolo pubblicato da Repubblica.it, che ripropongo qui per i lettori del Vulcanico, molti dei quali so grandi appassionati di fotografia, per lasciare anche nel mio blog una traccia del patrimonio formidabile e infinitamente prezioso che Letizia Battaglia lascia a tutti noi. E per ringraziarla di cuore di quello che mi ha insegnato.
Fonte: Repubblica.it
di Roberto Leone
Un pezzo di vita condiviso, anni impossibili da dimenticare per i cronisti dell’Ora il ricordo di Letizia Battaglia significa ritornare nelle stanze della redazione che oggi si trova in quel pezzo di strada che è stato ribattezzato proprio con il nome del giornale. A due passi c’era lo studio fotografico di Letizia e Franco Zecchin. Da lì arrivava di corsa lei o qualcuno dei suoi ragazzi per correre verso l’ennesimo delitto o verso un crollo nel centro storico allora martoriato e degradato. Noi “ragazzi dell’Ora” l’abbiamo vissuta come una madrina, che ascoltava e dava consigli anche sulla vita privata in quei brevi o lunghi tragitti verso la scena del crimine. Per questo ieri notte la chat del L’Ora edizione straordinaria si è subito intasata di messaggi dopo la pubblicazione della notizia della sua morte e della pagina del libro in cui, intervistata da Nino Giaramidaro, ricordava come dovesse tutto al giornale L’Ora al quale lei stessa aveva dato tutto. Un fiume di messaggi.
L’ultimo direttore dell’Ora Vincenzo Vasile: “Se n’è andata a 87 anni. Spero che ci abbia lasciato con uno dei suoi formidabili sorrisi. Letizia aveva nel nome il contrario dell’apparente sentimento dominante della sua città. E nel cognome tutta la grinta della battaglia dei palermitani migliori per cambiare le cose. Fotografa è dir poco: l’ho vista avventarsi sulla scena di delitti feroci. Sfottere – con i suoi scatti e le inquadrature più audaci – certi politici della borghesia della quale era figlia. Dichiarare con una foto uno sfrontato amore per la gente minuta, ragazze e ragazzi soprattutto, ritratti nelle pose di una qualunque giornata. Con un collega francese la ricordo mentre spiegava che il lavoro in Siciliano si dice travagghio, che è anche parola che evoca il tormento e il dolore del parto: “quando fotografo penso alla gioia di averlo un lavoro, la fatica di tenerselo, il dolore quando finisce, o ti uccide”.
Aggiunge Ciccio La Licata che con Letizia inizio a fare i primi giri di cronaca nera: “Quando cominciammo a lavorare insieme all’Ora non pensavo che Letizia sarebbe diventata ciò che è diventata. Ero convinto che i marciapiedi di Palermo fossero terreno troppo accidentato per una ragazza di buona famiglia. Ci ho messo poco a ricredermi vedendola difendere con passione, qualche volta persino con ferocia, la qualità dei risultati e lo spazio che si andava conquistando in un lavoro fino a quel momento pensato solo per gli uomini”.
Più recente il ricordo di Alberto Stabile: “Nell’estate del 2015 esposi a Letizia Battaglia l’idea di organizzare una sua mostra personale a Favignana, nell’ambito della rassegna Favignana Incontri, alla quale mi dedico da qualche anno. Avrebbe condiviso l’iniziativa anche il Museo Civico di Castelbuono e la sua instancabile direttrice, Laura Barreca. Con Letizia non ci vedevamo dai tempi gloriosi del suo arrivo al giornale L’Ora. Erano passati molti anni, ma fu come se ci fossimo salutati la sera prima. Accettò con entusiasmo e, con la meticolosa attenzione che metteva nel suo essere fotografa militante e artista, ci aiutò a individuare il profilo della mostra che inevitabilmente avrebbe riecheggiato il suo cammino professionale: dallo scatto che l’ha resa famosa sugli ultimi istanti di vita di Piersanti Mattarella, ucciso dalla mafia, alle bambine e alle donne di Palermo vittime del degrado”.
Marcello Sorgi torna invece agli anni 70: “A me piaceva molto l’atmosfera dello studio, a pochi passi da L’Ora (fu un’ingiustizia non aver trovato uno spazio interno all’edificio del giornale), in cui lei dominava e c’erano almeno tre generazioni diverse, lei e Shobba, Zecchin, ma anche un vecchio fotografo, Natale Gggioli, che parlava in romanesco, e cominciava sempre i suoi racconti con “na vorta me ricordo…”. L’anno scorso c’era stata una grande mostra delle immagini di Letizia a Roma al Maxxi (bella iniziativa di Giovanna Melandri), con tutte le prime pagine storiche de L’Ora, e Letizia che si aggirava un po’ confusa in mezzo a una folla di visitatori accorsi per vedere le foto ma soprattutto per conoscerla”.
E Daniele Billitteri ci riporta sulle scene dei delitti e della mafia: “Al giornale L’Ora Letizia Battaglia era arrivata per sostituire l’agenzia Scafidi. La storia dei fotoreporter palermitani è ancora tutta da scrivere. Tutti bravissimi, uomini duri, coraggiosi, forse un po’ cinici ma difficilmente tornavano senza scatti. Uomini, appunto. Fu in questo contesto che scoppò Letizia Battaglia, unica donna, a quel tempo, ad occuparsi di fotocronaca. Non basta dirlo. Bisogna immaginarlo. Arrivava a “orario di ammazzatina” che, statisticamente era tra le 19 e le 21, tranne che la vittima non fosse un edile, uno scarista o un netturbino. In quel caso erano le prime luci dell’alba. Arrivava Letizia col suo montgomery nero. Unica donna che non fossero mogli, madri, figlie, sorelle della vittima. Gli addetti ai lavori, morti, killer, sbirri e magistrati erano tutti maschi. Uomini duri con le mogli a casa. I primi tempi scambiavano Letizia per una turista curiosa col mito pruriginoso di Barbablù. Noi cronisti, all’inizio, avevamo un bel da fare per garantirle di potere svolgere il suo lavoro. Questo perché suoi scatti non avevano bisogno di tagli o ingrandimenti, era sempre “buona la prima”.
“Letizia, le immagini, la passione, l’attività di documentazione e denuncia contro la mafia, l’impegno politico, culturale e civile. Passaggi di vita fondamentali. Mi piace ricordare Letizia anche con queste parole dalle “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar: “Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora ti appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più… cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti…” Sono sempre stati aperti, e curiosi, e generosi di sguardi, i tuoi occhi” è il ricordo di Antonio Calabrò.
E Gaetano Perricone aggiunge. “E’ davvero triste l’addio alla carissima Letizia, donna straordinaria, grande Maestra. Battaglia di nome e di fatto, per tutta la vita, cera guerriera, per le lotte che ha condotto per legalità e la giustizia. Vivrà sempre dentro di me, con le sue memorabili foto, con tutto quello che mi ha, che ci ha insegnato con i tuoi scatti e con la tua anima. E’ stata una magnifica artista e un grande nemica della mafia: le sue foto piene di verità crudele hanno raccontato al mondo più e meglio di ogni parole l’orrore e la brutalità degli uomini di Cosa Nostra”.
Sandra Rizza ci riporta ai giorni nostri: “Penso a quell’eterna ragazza che ad ottant’anni suonati rispose, a chi le proponeva di fare un film, che lo avrebbe fatto solo se poteva interpretare una prostituta. E si fece una grassa risata. Perché un’eterna ragazza spiazza, stupisce, scandalizza, ha fame di vita e si dimentica di morire. Per questo, dal suo posto misterioso e segreto, sono sicura che oggi Letizia ci guarda, gli occhi irriverenti e curiosi, la sigaretta penzolante dalle labbra, e ci mostra guascona il dito medio, dritto all’insu, per ricordarci quanto il nostro cordoglio sia ridicolo e ipocrita. Perché un’eterna ragazza non muore. E un’eterna ragazza come lei, anche dal suo irraggiungibile altrove, è infinitamente più viva di noi, che siamo qui a piagnucolare sulle nostre memorie fallite, sulla nostra Palermo imputridita, sul nostro mondo di macerie corrotte”.
Infine, Bianca Stancanelli ha scelto la strada della poesia: “Mi sembra che sia giusto ricordare Letizia con i versi dei Cantos di Pound che lei considerava il suo “tesoro” e che suggeriva ai “giovani dagli occhi lucidi” che andavano da lei per “sapere e imparare”: Deponi la tua vanità Spregevole è il tuo odio che si nutre di falso, deponi la tua vanità, sollecito a distruggere, avaro in carità, deponi la tua vanità, dico, deponila! Ma avere fatto piuttosto che non fare questa non è vanità… Avere colto dall’aria una tradizione viva o da un occhio fiero ed esperto l’indomita fiamma Questa non è vanità. L’errore sta tutto nel non fatto, sta nella diffidenza che tentenna… Io li ascoltai da lei per la prima volta e m’impressionò la passione con cui li recitava a memoria. “L’errore sta tutto nel non fatto” mi sembra la sintesi migliore del suo lavoro e della sua vita”.
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